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Anche se il test di gravidanza positivo fa vedere cuoricini da tutte le parti, purtroppo l’imprevisto può sempre essere dietro l’angolo. Se è vero che il primo periodo è sempre quello più delicato, la possibilità di qualche inconveniente sfortunatamente accompagna tutta la gravidanza. E, in qualche caso particolarmente grave, si deve interrompere volontariamente, provocando un grande dolore ai futuri genitori. Parliamo quindi di aborto terapeutico, cercando di capire come funziona, quando si fa, come viene eseguito.
Cos’è l’aborto terapeutico
Per aborto terapeutico si intende l’interruzione della gravidanza che avviene dopo il primo trimestre e che è necessaria per evitare rischi molto gravi alla donna. Se l’aborto che avviene entro le prime 12 settimane (interruzione volontaria di gravidanza) può essere deciso anche per motivi diversi da quelli di salute (ad esempio, situazioni di grande difficoltà economica, giovane età della donna o indisponibilità alla maternità), per quello terapeutico devono esserci motivazioni connesse al benessere della gestante.
La legge italiana sull’aborto terapeutico
In Italia l’interruzione della gravidanza (sia volontaria che terapeutica) è regolata dalla legge n. 194 del 22 maggio 1978 intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Probabilmente ne avrete sentito parlare perché ancora oggi, dopo ben 42 anni dalla sua approvazione, è al centro di dibattiti e discussioni.
Questa legge stabilisce che l’aborto non è più un reato e che, entro i primi 90 giorni di gravidanza, la donna può decidere liberamente di interromperla. Dopo questo periodo però non è più una decisione esclusivamente sua. L’articolo 6 della legge parla chiaro. L’aborto terapeutico può avvenire:
- “quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
- quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
La futura mamma, la sua salute, la sua stessa vita e il suo equilibrio psichico sono messi al centro di questa legge, nonostante una decisione di tale portata sia difficile per chiunque di noi.
Cause dell’aborto terapeutico
- Patologie materne (grave gestosi, cardiopatie, diabete non compensato, tumori).
- Rischio di ripercussioni psichiche importanti per la mamma.
- Distacco di placenta.
- Rottura del sacco amniotico con infezione.
- Gravi malformazioni fetali.
- Problemi neurologi, anomalie cromosomiche, disordini metabolici del bambino.
Aborto terapeutico: quando si può fare
Il tempo massimo entro cui si può effettuare un aborto terapeutico è un nodo piuttosto spinoso della questione. La legge impone ai medici l’obbligo di tentare qualunque manovra di rianimazione su un feto capace di vita autonoma. In altre parole, se nasce un bimbetto di appena 24 settimane che magari ha gravi malformazioni, ma è vivo, dovrà essere rianimato, intubato, messo in incubatrice, seppur per poco tempo.
Considerato che ci sono casi di bimbi sopravvissuti (anche solo per poche ore) a 23-24 settimane, viene posto un limite per l’aborto terapeutico di 22 settimane di gravidanza. Dopo questa epoca il medico è tenuto alla rianimazione del feto. Cosa succede quindi? Accade che spesso e volentieri le mamme che si trovano nella situazione di dover interrompere una gravidanza molto avanzata devono rivolgersi a Paesi stranieri, ad esempio la Francia o l’Inghilterra, dove si può intervenire anche dopo le 22 settimane di gestazione.
Iter dell’aborto terapeutico
Abbiamo detto che per interrompere una gravidanza dopo il primo trimestre devono esserci motivi seri. Per l’articolo 7 della legge n. 194, i processi patologici che giustificano un’interruzione della gravidanza devono essere certificati da un ginecologo. Per essere sicuro della diagnosi, il medico si avvarrà delle più importanti tecniche (ecografia anche di secondo livello, amniocentesi, villocentesi etc). Inoltre, può richiedere anche la consulenza di altri colleghi specialisti, ad esempio i genetisti.
A questo punto, subentra un’altra questione importantissima: l’obiezione di coscienza, un fenomeno molto diffuso nel nostro Paese. Per motivi etici e deontologici, ci sono moltissimi ginecologi, ostetriche, infermieri etc. che si rifiutano di interrompere la gravidanza. L’associazione Luca Coscioni stima che, in Italia, 7 medici su 10 siano obiettori, con punte in alcune zone dell’80-90%.
Non vogliamo certamente entrare nella discussione su quale diritto deve prevalere (quello di salute e di scelta della donna o quello dei sanitari), però a volte in Italia interrompere una gravidanza è complicato. A livello teorico in tutte le strutture pubbliche ciò dovrebbe avvenire, ma non sempre è così.
Come si esegue l’aborto terapeutico
La tecnica che viene utilizzata per interrompere la gravidanza dipende dall’epoca gestazionale. Fino alla 15esima settimana di gravidanza o alla 16esima settimana di gravidanza si procede allo svuotamento dell’utero che può avvenire per:
- raschiamento o revisione della cavità uterina;
- isterosuzione (metodo Karman).
In entrambi i casi, si tratta di due tecniche chirurgiche non particolarmente complesse che prevedono il ricovero in day hospital e la sedazione.
Oltre queste settimane, viene indotto il travaglio che poi conduce al parto vero e proprio. In genere, vengono somministrate prostaglandine per via vaginale, sostanze normalmente impiegate in caso di parto indotto. Potrebbero anche essere dati farmaci per bocca. L’effetto è abbastanza soggettivo, quindi è difficile dire dopo quanto tempo partono le contrazioni. Come per qualunque parto, anche questo può essere doloroso. A seconda del centro in cui ci si trova e del numero di obiettori (anche gli anestesisti potrebbero esserlo), si può ricevere sia l’epidurale che altre tecniche di riduzione del dolore.
Gravidanza dopo un aborto terapeutico
Un aborto terapeutico non pregiudica la possibilità di avere altri bambini. È chiaro che prima si deve superare il trauma di questa brutta esperienza. Spesso è molto utile un sostegno di tipo psicologico: chiedete aiuto senza vergogna. È molto peggio cercare di fare da sole, quando invece uno specialista può dare una mano ad elaborare il lutto.
Dopo un aborto terapeutico le mestruazioni tornano dopo circa 30-40 giorni. È esattamente come se fosse il capoparto, cioè il primo flusso mestruale dopo il parto. È consigliabile chiedere al proprio ginecologo quando si può riprendere la ricerca della gravidanza. In particolare, se sul feto è stata eseguita l’autopsia, è meglio aspettare l’esito per vedere se c’è qualche problematica che si può risolvere prima di ricominciare ad avere rapporti non protetti.
Aborto terapeutico e Ru486
Visto l’argomento che stiamo trattando, forse è il caso di fare chiarezza. Ru486 è la famigerata “pillola abortiva” che, a più riprese, occupa le cronache dei giornali. In Italia, è arrivata sul mercato nel 2009 ed è un farmaco che serve a praticare l’aborto farmacologico nel rispetto delle regole imposte dalla legge n. 194.
Il principio attivo della Ru486 si chiama mifepristone e ha la funzione di bloccare il progesterone, un ormone che garantisce il buon andamento della gravidanza. Per aumentare l’efficacia del mifepristone si associano le prostaglandine, sempre assunte per bocca. Il primo farmaco prepara l’ambiente, il secondo provoca l’emorragia e quindi l’espulsione.
La pillola Ru486 si può utilizzare entro la settima settimana di gravidanza, quindi non viene impiegata in caso di aborto terapeutico.
Le informazioni pubblicate in questo articolo non si sostituiscono al parere del medico. Ti invitiamo a consultarlo in caso di dubbi o necessità.