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donna in gravidanza si tocca la pancia nuda esposta al sole
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Amniocentesi e villocentesi sono, per definizione, le due procedure di diagnosi prenatale invasive. Quelle che spaventano un po’ tutte le donne, sia per l’esecuzione in sé dell’esame, sia per ciò che potrebbe rivelare, ovvero delle anomalie cromosomiche importanti. Cerchiamo di capire come funzionano queste due metodiche con l’aiuto di Patrizia Curcio, specialista in medicina materno-fetale, con una specifica formazione al King’s College di Londra.

Dr.ssa Patrizia Curcio

Dr.ssa Patrizia Curcio

    Dottoressa Curcio, che cosa sono amniocentesi e villocentesi?

    “Sono le metodiche invasive che consentono di conoscere la mappa cromosomica fetale (il numero dei cromosomi di ogni essere umano è di 46). Sono invasive poiché implicano un rischio di aborto legato alla stessa procedura. Il rischio di aborto previsto è dell’1% per entrambe le tecniche. Oggi esistono test non invasivi (ricerca del DNA fetale nel sangue materno, cell free DNA) altamente affidabili per la Sindrome di Down, ma l’alto costo ne limita l’uso in situazioni particolari e soprattutto vanno sempre consigliati in associazione allo screening del primo trimestre”.

    Molte donne hanno ancora molta paura ad effettuare questi esami per il rischio di aborto. Sono timori giustificati?

    “La paura della 'perdita' è soprattutto legata all’immaginario della parola invasivo che evoca una sorta di danno provocato. In realtà le comunità scientifiche internazionali sono d’accordo che il rischio dovrebbe essere rivisto poiché uno studio recente di un gruppo danese ha concluso che il rischio della diagnosi invasiva può essere allocato tra lo 0,1-0,2% con operatori esperti. Questo significa che il rischio è più basso di quanto finora considerato e che ogni donna dovrebbe ricevere l’informazione adeguata sui rischi e sui benefici che derivano da una procedura correttamente eseguita da un operatore esperto”.

    Cosa sono in grado di diagnosticare le due tecniche e quali sono le differenze?

    “Entrambe le metodiche danno informazioni sovrapponibili (esistono possibili, seppur rari, problemi tecnici legati ai risultati del laboratorio per ciò che riguarda i villi coriali). In realtà, quello che cambia sostanzialmente è il materiale prelevato e l’epoca gestazionale in cui è possibile effettuarle. Rilevano anomalie di numero e di forma dei cromosomi. Ognuna di queste varianti può essere associata ad una specifica malattia. La villocentesi si effettua a 11-13 settimane e vengono prelevati frammenti di placenta. L’amniocentesi si effettua a 16 settimane e si preleva liquido amniotico”.

    Come vengono eseguiti gli esami? In quanto tempo si ottiene l'esito?

    “Le tecniche delle procedure sono legate all’operatore e, soprattutto per la villocentesi, esistono piccole differenze tra un operatore e l’altro. Consistono nell’introduzione di un ago, attraverso l’addome materno, raggiungendo la placenta o una tasca di liquido amniotico, lontana da parti fetali. Io utilizzo un anestetico locale nel caso della villocentesi. Durano entrambe pochi minuti. Non provocano dolore, ma la paura spesso rende la procedura un momento di profonda tensione emotiva. Il risultato di una mappa cromosomica si ottiene in media a 15 giorni dal prelievo, ma esiste la possibilità di una tecnica di laboratorio (QF-PCR) estremamente affidabile per le più frequenti anomalie dei cromosomi, come la trisomia 21 (Sindrome di Down), che fornisce un risultato a 24-48 ore dalla procedura”.

    Quando sono particolarmente raccomandate?

    "Le indicazioni alla diagnosi invasiva sono molteplici e dipendono dall’epoca gestazionale in cui si effettuano. L’età materna non è più considerato un fattore di rischio per accedere ad un test invasivo, ma il rischio viene ricalcolato dopo lo screening del primo trimestre. Quindi, indipendentemente dall’età, si seleziona un gruppo di pazienti a rischio allo screening del primo trimestre solitamente per translucenza nucale aumentata o anche per la presenza di difetti strutturali già visibili a quest’epoca precoce. L’altro potenziale gruppo di pazienti a cui si propone una procedura invasiva è quello in cui troviamo difetti visibili solo all’epoca dell’esame morfologico. Infine, resta il gruppo di pazienti portatrici di malattie geneticamente trasmissibili che solitamente ricorrono alla villocentesi per avere una risposta precoce sulla salute del loro futuro bimbo. Il materiale proveniente da villocentesi o amniocentesi può essere conservato e riutilizzato nel caso di indagini di laboratorio più sofisticate che potrebbe essere necessario effettuare nel corso della gravidanza. La diagnosi definitiva non sempre è diretta e spesso occorre tempo per individuare alcune patologie”.

    Cosa deve fare una donna dopo averli eseguiti?

    “Dopo la procedura non è richiesto riposo assoluto con allettamento e bisogna monitorare la possibile, seppur rara, comparsa di febbre alta, sentinella dello sviluppo di una corionamnionite, infezione intrauterina indotta dalla procedura. In questo caso e nel caso di forti dolori, perdite ematiche o di liquido bisogna assolutamente contattare il ginecologo di riferimento o recarsi in ospedale. Piccole perdite e contrazioni lievi possono essere normali e senza alcuna conseguenza. La terapia antibiotica prima della diagnosi invasiva non fa parte del protocollo consigliato dalle linee guida internazionali”.

    Qual è il vostro approccio alla coppia comunicando una diagnosi negativa?

    “'Comunicare' ad una futura mamma che qualcosa non va credo sia una delle cose più dolorose da affrontare poiché nell’immaginario di tutte, la gravidanza è, per definizione, un evento felice. Esistono patologie curabili chirurgicamente, altre clinicamente, altre ancora implicano sequele di tipo neurologico, motorio, psichico, estetico…, altre mortali. La maggior parte delle volte che una donna ha un risultato patologico è già informata della presenza di qualche segno che ha motivato la procedura. Le situazioni da affrontare sono le più diverse poiché la varietà dei quadri clinici ha uno spettro ampio e perché il livello emozionale è profondamente diverso in ogni donna. Il lavoro di équipe è spesso il solo che ci consente di dare ad una coppia tutte le informazioni necessarie per poter scegliere e che lenisce in qualche modo la disperazione per quanto le sia toccato. Io non sono obiettore di coscienza e trovo difficile immaginare che si possa accompagnare in modo imparziale una donna attraverso il doloroso iter dell’interruzione volontaria. La legge italiana prevede infatti, nei casi gravi, che si possa ricorrere all’interruzione di gravidanza fino a 22 settimane e tre giorni circa. Questa, le dirò, è la domanda più difficile perché tocca note intime, perché prevede empatia, stima, professionalità, rigore… un mix esplosivo che fa sì che l’altro senta di potersi 'affidare e fidare'”.