Skip to main content
search
dna
iMamma - L'app per i genitori
iMamma
L'app per i genitori

La nuova frontiera della diagnosi prenatale? E’ la ricerca del Dna fetale circolante nel sangue materno. Una tecnica moderna per “lo screening prenatale non invasivo delle principali anomalie cromosomiche fetali”, dice il ginecologo Andrea Biondo. Un modo innovativo, insomma, per sapere come vanno le cose nel vostro pancione. Che però ha ancora un limite: il costo non proprio alla portata di tutti.

Dr. Andrea Biondo

Dr. Andrea Biondo

    Dottore Biondo, cos'è lo studio del Dna fetale nel sangue materno e cosa permette di scoprire?

    “L’analisi del Dna libero fetale circolante nel sangue materno è un approccio sensibile e affidabile. Questo nuovo metodo d’indagine rappresenta un importantissimo passo avanti nella medicina prenatale e apre nuovi scenari per l’identificazione delle anomalie genetiche fetali. Con un semplice prelievo di sangue, il test effettua una ricerca di aneuploidie fetali senza rischi per il feto e per la mamma a partire dalla decima settimana di gravidanza. I risultati degli esami sono affidabili (sensibilità superiore al 99,9% per le trisomie più frequenti cioè la trisomia 18 e la 21) e disponibili in tempi rapidi. Consente inoltre di rilevare le più frequenti alterazioni dei cromosomi sessuali, le principali microdelezioni, ovvero perdita di una regione cromosomica, e il sesso del nascituro, ovviamente a discrezione dei genitori”.

    A quale epoca gestazionale si esegue?

    “Si può fare a partire dalla decima settimana di gestazione, ma è consigliabile aspettare l’11esima, quando è più probabile che la quantità di Dna fetale confluita nel sangue materno sia sufficiente per essere isolata e quindi analizzata. Nulla vieta di effettuarlo anche più tardi, fino alle 16 settimane di gravidanza, ma si perderebbe il vantaggio della precocità della diagnosi. L’esito del test è disponibile entro 20 giorni”.


    Chi deve eseguire questo esame? 


    “Questa tecnica è, al momento, indicata in gravidanze singole nelle quali è sconsigliabile la diagnosi prenatale invasiva (per elevato rischio di aborto spontaneo, gravidanze derivanti da fecondazione assistita); positività ai test di screening del primo o secondo trimestre; pazienti considerate comunque ad alto rischio; donne che richiedono una attendibilità maggiore rispetto al test di screening del primo trimestre (99% per la sindrome di Down contro il 90%).

    Quando invece è da sconsigliare?


    “Non è al momento da suggerire in prima istanza in donne a basso rischio o in gravidanze gemellari (insufficiente validazione scientifica). L’utilizzo delle cellule fetali ottenute dal sangue materno per lo screening di anomalie genetiche e cromosomiche non deve essere proposto quale alternativa alla diagnosi prenatale invasiva che rimane, ad oggi, l’unico strumento per accertare il cariotipo fetale anche ai fini dell’eventuale interruzione della gravidanza, e non sostituisce, per l’elevato costo, lo screening combinato del primo trimestre”.


    Il nuovo test manderà ‘in pensione’ villocentesi e amniocentesi?


    “Al momento no e per diversi motivi. Innanzitutto perché con il test del Dna si controllano solo alcune coppie di cromosomi, sebbene siano quelle dove si riscontra la gran parte delle patologie, mentre villocentesi e amniocentesi consentono di indagare l’intero assetto cromosomico. In più, non sono indagabili le malattie di un singolo gene, che nei casi con familiare affetto si possono diagnosticare tramite villocentesi con la sonda molecolare per quel gene: ne è un esempio la talassemia. Infine, c’è quel rischio di errore dell’1%. In ogni caso, se non 'in pensione', il ricorso a villocentesi e amniocentesi andrà incontro a una drastica riduzione”.